Uscirà in libreria il 19 maggio Il Libro della schiavitù, di Ilias Venezis, von la prefazione di Antonia Arslan, tradotto da Francesco Colafemmina.
La cronaca più tragica del genocidio greco, nel centenario della Catastrofe dell’Asia Minore. La sua portata di testimonianza è immensa: ma il suo valore di poesia, il suo potere di espressione e risonanza non sono da meno.
Un racconto straordinario, che sta tra l’Anabasi, Guerra e Pace, i resoconti di Buchenwald, il tutto mescolato ad una freschezza adolescente, a un senso del pittoresco che la frequentazione quotidiana della morte non riesce a smussare. Pierre Fauchery, Le Monde
Anatolia, ottobre 1922. Con il tragico incendio di Smirne e la ritirata dell’esercito greco dal fronte lungo il fiume Sangario, dopo il velleitario sogno di marciare su Ankara, la popolazione greca dell’Asia Minore è lasciata in balia dell’esercito kemalista e di feroci truppe di irregolari. Nella città di Aivalì, di fronte all’isola di Lesbo, il giovane Ilias Mellos (il vero nome di Ilias Venezis) è nascosto in casa dai suoi. I turchi rastrellano tutti i maschi dai 18 ai 45 anni. Presto anche Ilias sarà catturato e inviato attraverso marce forzate a piedi nudi verso i Battaglioni di lavoro (gli Amelè Taburù) all’interno dell’Anatolia. Una cronaca cruda, immediata, priva di giudizi morali o sbavature retoriche, dell’abisso della violenza, della progressiva catabasi di uomini e donne nella disumanità.
Pubblicato nella sua prima versione nel 1931 divenne un caso letterario nella Grecia ancora scossa da una tragedia che aveva visto riversarsi sulle isole e sulla terraferma più di un milione di profughi. Altrettanti si stima perirono nel corso delle violenze, delle rappresaglie, degli incendi di villaggi. Scompariva definitivamente la millenaria presenza ellenica in Asia Minore. La vita nei Battaglioni di lavoro preannuncia l’inferno concentrazionario della Seconda guerra mondiale. Non mancano neppure i zaùs, i kapò greci dei campi, persino più crudeli dei turchi nei riguardi dei connazionali. E non mancano episodi di straziante umanità: un medico militare al quale i greci hanno ammazzato la madre, che si prende cura di Ilias; una vecchia che offre del pane caldo e una mela cotogna, un anziano avaro che centellina offerte di tabacco per gli schiavi. Su tutti questi volti risplende «l’aspro sole dell’Anatolia che pian piano, quanto più la guerra si allontana, comincia pazientemente ad avvolgere di nuovo i suoi uomini». Una cronaca dolente e corale, un denuncia serrata degli orrori della guerra e dell’odio «questa potenza talmente deificata, ma che si rivela così sterile».
Ilias Venezis (1898-1973) è tra i massimi scrittori greci della cosiddetta generazione del ’30. I suoi primi racconti escono a Mitilene, grazie al sodalizio letterario con Stratis Myrivilis. Nel 1931 pubblica Il Numero 31328. Sarà il primo di una trilogia dedicata all’Asia Minore e al dramma della guerra e dello sradicamento, seguito da Tranquillità (1939) e Terra d’Eolia (1943). Nell’ottobre del ’43 è arrestato dalle SS per aver fatto allusioni alla libertà in un discorso con alcuni colleghi della Banca di Grecia per la quale lavora da oltre un decennio. La sua vita, appesa a un filo, è salvata dall’Arcivescovo di Atene Damaskinos. Autore di numerosi racconti ed opere teatrali, sarà nominato membro dell’Accademia di Atene nel 1957.
Il libro verrà presentato al Salone del Libro di Torino venerdì 20 maggio durante la conferenza Geopolitica fra passato, presente, storia e memoria con Paolo Bertinetti, Francesco Colafemmina, Dimopoulos Spyros e Stenio Solinas.
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